I mercanti genovesi e veneziani non potevano rimanere indifferenti alle
esplorazioni che arditi viaggiatori tentavano nell'Asia centrale,
l'India e la China. Essi comprendevano che queste contrade offrirebbero
in breve un nuovo sfogo ai loro prodotti, e che, d'altra parte, utili
immensi si ricaverebbero dall'importazione in Occidente di mercanzie di
fabbricazione orientale. Gl'interessi del commercio dovevano quindi
lanciare dei nuovi cercatori sulle vie delle scoperte. Queste furono le
ragioni che decisero due nobili veneziani ad abbandonare la loro patria
ed a sfidare tutte le fatiche e tutti i pericoli di quei perigliosi
viaggi, allo scopo d'estendere le loro relazioni commerciali.
Questi due Veneziani appartenevano alla famiglia Polo, la quale traeva
origine da Sebenico, in Dalmazia, ed erasi stabilita sino dal 1033 in
Venezia. È nel secolo XIII che noi troviamo questa famiglia divisa in
due rami; uno dei quali abitava nella contrada di San Felice, l'altro in
quella di San Geremia.
I Polo di San Felice, datisi già da più anni al commercio, avevano in
esso trovata larghissima fonte di ricchezze, che aveanli posti a livello
delle famiglie patrizie di Venezia.
Nel 1260, i fratelli Niccolò e Matteo o Maffio, figliuoli di Andrea, che
già prima del 1250 avevano stabilito un banco a Costantinopoli, terra
più veneziana che greca dopo l'impresa del Dandolo[2], si recarono con
una paccotiglia considerevole di gioielli nel Sudac, in Crimea, ove la
loro casa possedeva un altro banco diretto da un loro fratello maggiore,
Andrea Polo. Da quel punto, risalendo verso il nord-est, e traversando
il paese di Comania, giunsero sul Volga, ove teneva il suo campo
Berke-Kan signore dei Tartari occidentali. Questo principe mongollo
accolse benissimo i due negozianti di Venezia, e comperò i gioielli che
gli offersero pel doppio del valore, facendo inoltre ad essi ricchissimi
doni.
Niccolò e Matteo rimasero un anno nel campo mongollo; finchè, nel 1262,
scoppiò una guerra tra Berke ed il principe Ulagù o Alau, signore dei
Tartari di Levante, e conquistatore della Persia. I due fratelli, non
volendo avventurarsi in mezzo a contrade battute dai Tartari,
preferirono recarsi a Boukhara, che era la principale residenza di
Berke, e colà rimasero tre anni e mezzo. Ma quando Berke fu vinto, e
presa la sua capitale, un'ambasciata d'Ulagù invitò i due Veneziani a
seguirli verso la residenza del Gran Kan[3] dei Tartari, che avrebbe
fatto loro ottima accoglienza. Kublai-Kan, quarto figlio di Gengis-Kan,
era imperatore della China, e teneva allora la residenza d'estate in
Mongolia, a Cai-ping-fu, sulla frontiera dell'impero Chinese.
I due mercanti veneziani partirono, e spesero un anno intero nel
traversare quell'immensa estensione di paese che divide Boukhara dai
confini settentrionali della China. Kublai-Kan fu lietissimo di ricevere
quegli stranieri, venuti da paesi occidentali. Fece loro molte feste,
e li interrogò con premura sugli avvenimenti che accadevano in
Europa, chiedendo molti particolari intorno agli imperatori e re, alla
loro amministrazione, ai loro metodi di guerra; poscia li intrattenne
lungo tempo del pontefice e degli affari della Chiesa latina.
Matteo e Niccolò, già pratici degli usi tartareschi e della lingua,
risposero francamente a tutte le domande dell'imperatore, al quale tanto
piacquero i due Veneziani, che pensò d'inviarli come suoi ambasciatori a
Sua Santità. I mercanti accettarono con riconoscenza, giacchè in tale
alta condizione il loro ritorno doveva effettuarsi in condizioni
vantaggiosissime.
Kublai-Kan fece stendere lettere in lingua turca, nelle quali chiedeva a
Sua Santità Clemente IV, d'inviargli cento missionari per convertire
gl'idolatri al cristianesimo; poscia licenziò i due Veneziani, dando ad
essi per compagno di viaggio uno de' suoi baroni, chiamato Cogatal, ed
incaricandoli di riportargli un vasetto dell'olio de |